L’arte della solitudine – Recensione


Era un patto onesto con la solitudine, con le nostre due solitudini incollate assieme.
Sapevo che non esiste al mondo una solitudine più profonda di chi non ha provato con tutta la forza a fare una cosa e non ce l’ha fatta.
Mi ritrovai ancora più vicino a lei con una nostalgia nuova.

Sante ed Elide, giornalista e psicologa, vivono due diverse tipologie di solitudini: lavorativa e interpersonale, ma sono pur sempre una coppia. Una bella coppia che resiste al retaggio del tempo da oltre venti anni.

Sante schiva  con successo gli attacchi dei suoceri: i facoltosi Romualdi, che agognano un genero “altolocato” per la loro unica figlia.

Sante ed Elide formano una coppia granitica, scevra da litigi e incomprensioni. Insieme portano avanti un’esistenza serena, senza grandi scossoni. Dopo anni di matrimonio, le abitudini di coppia si radicano talmente tanto da diventare ataviche, obsolete, perdono quell’antico e genuino candore, quei valori  acquisiti all’inizio della convivenza. Il loro rapporto si basa anche su un altro tipo di solitudine, quella individuale – familiare, perché non riescono a concepire figli.

Tra Sante ed Elide il “più debole” è il giornalista, che si lascia trascinare alla deriva dai propri sentimenti, dalle proprie emozioni. La vita domestica lo soffoca e allo stesso tempo si sente circondato da una solitudine “assordante”, fatta di voci, discorsi sconnessi e fuori luogo. La società è rumorosa, è ridondante anche quando tace, allora decide di “ossigenare la mente” scendendo in strada, vivendo tra la gente. Tra gli ultimi conosce Druilio, che lo spinge a mettere in campo un’altra parte di sé, quella “solidale”, anche se vive tra l’indifferenza generale del mondo civile, assumendo alcol. Sante si trascina, si barcamena nel mondo dei clochard, vivendo però nella speranza e nell’attesa  che questo risulti essere, per sé, solo a una fase transitoria, un periodo di passaggio che gli consenta poi il ritorno alle proprie “radici”, alla “vecchia normalità”.

Quando tocca il fondo, una persona che vive da sola si ritrova avvolta da una bolla ovattata di silenzio e solitudine in cui il tempo è simile a sabbia che scivola via dalle dita delle mani. Perde il controllo sugli eventi e sui rapporti interpersonali e poi… Tutto tace.

Recensione a cura di Concetta Padula, che ringraziamo.

Intervista ad Aldo Boraschi

Concetta Padula intervista Aldo Boraschi, autore di La voce del geco.

I protagonisti della storia si distinguono sempre perché danno forti emozioni, sembra che acquistino vita  e carattere man mano che la penna del Boraschi fa prendere forma alla storia, la fa evolvere e poi concludere. I personaggi del romanzo instillano una grande impronta emotiva e formativa nel cuore dei lettori, lasciando spazio ad un messaggio interpretativo libero e, perché no, anche soggettivo.

Ne La voce del geco lei ha saputo coniugare l’amore per le scienze, l’antropologia e la letteratura, descrivendoci con disarmante semplicità e schiettezza una grande e profonda storia d’amore, quella tra Giusto e Raimonda. Secondo lei, il “salto” che compie Giusto è un balzo verso il vuoto o verso qualcosa di più grande? E se sì, verso cosa?

La meraviglia di un libro è quella che ognuno di noi lettori può immaginare un finale. Questa catarsi tra libro e lettore è più marcata in alcuni romanzi. Penso che La voce del geco sia uno di quelli. Posso dirle quello che penso io, del finale.

Parto da lontano, se ha pazienza di seguirmi.

Appena uscito il libro, una giornalista di un quotidiano genovese mi chiama e mi dice che ha trovato molte similitudini con il Barone Rampante di Italo Calvino. Per non confessare la mia ignoranza, le ho dato ragione. Non avevo ancora letto il libro di Calvino; l’avevo negli scaffali (mi sono accorto, poi, di averne due copie in due differenti edizioni) ma non avevo ancora trovato il tempo per leggerlo. L’ ho letto e ho trovato una differenza sostanziale. Per Cosimo (protagonista del Barone Rampante)  quella di salire sugli alberi  e non scenderne più è stata una scelta. Per il mio Giusto (mi scusi il pronome possessivo, ma tutti i personaggi che escono dalla mia penna fanno parte integrante di me) quel tetto era l’unica opzione a sua disposizione per vivere. Tutto questo per dirle che non riuscivo a vedere un futuro per Giusto al di sotto di quel tetto. Come non riuscivo ad immaginare Giusto invecchiare su quelle tegole. Lei mi chiede se cercava qualcosa di più grande? Beh, io penso di sì. Poi ognuno di noi darà un nome a quel “qualcosa di più grande”.

In genere, è sempre la donna nella vita e nei romanzi ad assumere il ruolo del personaggio “ideale”, sognatrice, un po’ romantica, l’uomo è più concreto, pratico, razionale, mentre nel suo romanzo si capovolgono le parti. Perché, se c’è un motivo, ha voluto modificare questi cliché letterari?

Lei pensa che il personaggio romantico sia Giusto? Io vedo Raimonda in quelle vesti, tanto che alla fine non si rassegna alla morte di Giusto e lo va cercando per tutti i tetti del mondo, lo accarezza nel vento, lo sente nella pioggia. Romanticismo allo stato puro.

Giusto è circondato da “strani personaggi”, soli ed emarginati. Gli “ultimi” nel suo romanzo affrontano in modo diverso la solitudine, come? Tra Giusto e Raimonda, chi tra i due è più solo, e perché?

Giusto ha creato un suo micro mondo su quel tetto. Potremmo dire che si tratta  di un’unione di solitudini che, alla fine, si è dimostrata  tanto perfetta quanto fragile. Uscito di scena Giusto, tutto è andato in mille pezzi.

Lungo tutto il prosieguo del racconto, il cielo e la terra si toccano, si fondono, si confondono oppure continuano ad alternarsi, a contrapporsi, ad evitarsi. Ci chiarisca meglio.

Quante volte abbiamo detto: vorrei essere su un’isola deserta  e non vedere nessuno? Tutti, almeno una volta nella vita, lo hanno pensato. Nella Voce de geco  non c’è né cielo né terra. C’è un concetto di non contaminazione con il mondo, di non appartenenza. È quello stare “sopra” che affascina in questo libro. È quella distanza minima con il cielo, con Dio, che accomuna il lettore con le pagine.

Senza svelare il finale, qual è il vero messaggio che ha voluto lanciare in modo diretto al suo pubblico di lettori? E quello indiretto?

La voce del geco è un libro aperto. Il messaggio, la chiave di lettura, è da ricercarsi in ognuno di noi.

Grazie a Concetta Padula per questa intervista e ad Aldo per le sue risposte attente.

“L’arte della solitudine” e gli “ultimi” di Aldo Boraschi

Dal 1° marzo è disponibile l’edizione digitale di L’arte della solitudine, un altro romanzo di grande successo del giornalista e scrittore Aldo Boraschi, in cui protagonisti sono gli “ultimi”, persone che stanno ai margini della società, che vivono ai limiti dell’esistenza.

Sante Bruni è un giornalista, vive a Bologna con la moglie Elide, combattuto tra le insoddisfazioni professionali e il dolore per la paternità che non arriverà mai. Eppure la sua vita non è solo questo. Fuori dalla sua casa, in fuga da se stesso e da ataviche domande senza risposta, incontra Duilio, Serena, il mondo degli ultimi, avanzi di mondo. Passato e futuro si incontrano, inesorabilmente, davanti al deserto della verità presente.

Purtroppo, questa è la condanna per tutti quelli, come me, che hanno scelto il mestiere di giornalista. Restare a guardare quello che fanno gli altri e, se reputiamo sia di un certo interesse, scriverne: il mestiere più onanistico del pianeta.

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